Logo Splash Sicilia
Sicilia
 
Registrati Dimenticata la password?
*
adattabile

  Erice - Castello di Venere
Punti di interesse
Erice - Centro Ettore Majorana
Erice - Castello di Venere
Erice - Castello Pepoli
Erice - Chiesa di San Giuliano
Erice - Chiesa di San Giovanni Battista
Erice - Chiesa del Santissimo Salvatore
Erice - Chiesa di San Martino
Erice - Chiesa di San Pietro
Erice - Chiesa di San Cataldo
Erice - Chiesa di Santa Lucia
Erice - Chiesa Matrice
Erice - Giardino del Balio
Erice - Museo Civico
Erice - Municipio
Erice - Porto di Pizzolungo
Valderice - Porto di Bonagia
Valderice - Tonnara di Bonagia
Erice - Torretta Pepoli
 
Erice - Castello di Venere

Sulla cima del Monte Erice si può ammirare un castello da cui si può godere una splendida veduta che spazia dalla città di Trapani e le sue saline all’arcipelago delle Egadi ed attraverso l’agro ericino fino a Capo San Vito.

Le prime testimonianze storiche indicano che in questo sito sorgeva un santuario a cielo aperto sicano-elimo al quale in epoca romana si sovrappose un tempio di modeste dimensioni dedicato alla Venus Erycina dei Romani.

Il tempio era sede di un culto dedicato inizialmente ad una dea madre della fecondità naturale (Potnia), successivamente identificata con Astarte dai fenici-cartaginesi, dai greci come Afrodite e dai romani come Venere. Qui risiedevano le jeròdulai, bellissime sacerdotesse che praticavano l’arte della prostituzione sacra, congiungendosi con i pellegrini che quotidianamente si recavano sulla vetta ericina per rendere onore alla Dea. Durante il mese di agosto venivano celebrate le feste della partenza delle colombe sacre ad Afrodite (Anagogie) e quelle del ritorno (Catagogie), in cui la colomba rossa incarnazione della Dea faceva ritorno al santuario.

Il luogo non era di facile accesso essendo una spianata poco estesa alla sommità di un picco roccioso separato dalla montagna da un profondo crepaccio; quest’ultimo venne colmato con un muro di contenimento (la cui costruzione viene attribuita da Diodoro Siculo al mitico Dedalo), formato da un dozzina di strati lapidei, che consentì di ampliare la superficie del recinto sacro, il themenos. Dell’ultimo restauro avvenuto in epoca romana rimane l’effigie in una moneta fatta coniare dal console Consilio Noniano.Ancora visibile è un profondo pozzo cilindrico, detto di Venere, che gli studiosi ritengono fosse stato una favisa, ovvero una fossa nella quale venivano deposti i resti dei sacrifici in onore della dea.

La struttura attualmente visibile del castello risale al XII° secolo ad opera dei Normanni che riutilizzarono il materiale lapideo del preesistente santuario romano, del quale non rimane più nulla, realizzando una cinta muraria con un’alternanza di rientranze e sporgenze che si adattano alla conformazione della rupe con i caratteristici merli a coda di rondine, detti ghibellini.

Al suo interno risiedevano i tre rappresentanti della autorità regale: il Bajulo giudice civile ed esattore delle imposte, il Capitano Regio e, successivamente, il Castellano; il castello fungeva anche da carcere.

Come è descritto da Vito Carvini nella sua Erice antica e moderna la struttura della fortezza era molto più ampia ed articolata di quella attuale, infatti comprendeva anche tre torri in una posizione più avanzata, separate dall’attuale castello per mezzo di un profondo fossato. Le due parti della fortezza erano collegate da un ponte levatoio, menzionato dall’arabo Ibn-Giubayr nel resoconto del suo viaggio in Sicilia nel 1184.

Il castello fu piazza reale fino al XVI° secolo e vi era stanziato un presidio militare spagnolo. La carica di Castellano, dopo essere stata appannaggio delle più importanti famiglie nobiliari ericine, venne acquistata nel 1628 dal patrizio Alberto Palma per la ingentissima somma di 800 onze. Questa comportava la direzione del carcere oltre che la manutenzione della fortezza. In seguito castellani di Erice divennero quindi i suoi eredi, tra i quali Antonio Palma che fece colmare il fossato e costruire l’attuale scalinata di accesso, poi i conti di Monroy ed, infine, i principi di Pandolfina.

Come riporta Antonino Cordici nel XVII° secolo venne abbattuta una delle torri per ordine di un ispettore viceregio, temendo che dall’alto di essa fosse possibile con armi da fuoco violare l’interno della fortezza più interna. Dopo la riforma borbonica dell’ordinamento amministrativo nel 1818-1819 il maniero passò di proprietà al Comune. Sul finire del secolo scorso al fine di consentire un più agevole accesso alla fortezza, venne arretrata la cortina muraria lasciando isolate le due torri superstiti, ormai semidiroccate, che nel 1872 vennero affidate in concessione enfiteutica dal Comune al conte Agostino Sieri-Pepoli, il quale provvide a restaurarle e a ricostruire la torre di forma pentagonale in precedenza abbattuta, oltre che a edificare il giardino del Balio.

Dalla scalinata di accesso si giunge al portale con un arco ogivale che è sovrastato (dal basso verso l’alto) da una grande lapide calcarea con l’aquila asburgica di Carlo V, una bifora trecentesca ed una caditoia coperta da grossi lastroni di pietra. Subito a destra dell’ingresso si trovano i locali del carcere ed oltre si giunge alla spianata dove sorgeva l’antico tempio. Verso sinistra si trovano i ruderi dell’abitazione del castellano ed i resti della vasca di un piccolo ambiente termale (calidarium) forse di epoca romana.

Attualmente tale inestimabile bene architettonico è deturpato dalla presenza di alcune antenne che, certamente, devono essere asportate ed è in attesa di un suo ottimale utilizzo come anche per le torri del Balio, ad esempio anche come la sede ideale per diverse manifestazioni culturali.
 
*