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Erice

Erice: storia di un antico borgo



Le origini di Erice si disperdono nella nebbia del tempo. Ed è proprio il caso di dir così, abusando di un luogo comune, ma per rispettare quella certa analogia con la nebbia vera, quella che spesso avvolge nella sua coltre bianca la cima del monte; nebbia che creò forse, nella fantasia creativa di mito degli antichissimi Sicani…

Gli inizi di Erice



L'origine di Erice risale a tempi assai lontani. È ritenuta di comune accordo tra gli storici città elima: è certo infatti che la vetta del monte Erice fu fondata dagli Elimi, popolazione di origine anatolica, profughi secondo il mito troiano. Essi fortificarono la cittadina intorno al VIII sec. a.C. e la resero un centro religioso di grande importanza. Divenne fortezza di notevolissimo prestigio, insieme con Siracusa ed Enna fu una delle più importanti fortezze siciliane. Nella lotta condotta dagli Elimi e dai Cartaginesi contro l'espansione ellenica nella Sicilia occidentale, Erice divenne quasi un avamposto di Cartagine. I tentativi di conquista del monte e del suo tempio-fortezza ebbero quasi sempre infelice esito. Nel 398-397 a.C. Erice cadde in possesso dei Cartaginesi e dei Siracusani durante la guerra che culminò con la distruzione di Motya.
Nel 278 a.C. Pirro, re di Epiro, riuscì ad espugnare la fortezza ericina. Erice venne così a far parte del suo poco duraturo regno ellenico, ma ritornò ai Cartaginesi dopo la sconfitta di Benevento. Durante la prima guerra punica, Erice assunse un posto di primo piano. Essa rappresentò un ostacolo non indifferente per la definitiva vittoria dei Romani. Caduta in loro possesso, decadde militarmente, avendo perduto ogni funzione difensiva. Dopo aver raggiunto la massima prosperità, anche il vecchio santuario cominciava a decadere e, quindi, anche la città che da esso aveva tratto vita. Tuttavia la funzionalità e l’importanza del santuario durante i secoli della dominazione romana rimasero inalterati, almeno a giudicare dalle fonti storiche dell’epoca, non ultimo persino il grande Cicerone nel I sec. a.C. Il santuario in questi secoli fu meta di un pellegrinaggio che, pure essendo cambiato, gli scenari politici ed economici della città, continuarono ad esercitare un notevole fascino. Passarono poi ben undici secoli prima che la storia tornasse a parlare di Erice. Sotto i Bizantini, infatti, che assieme agli Arabi diedero gli attuali nomi a tante contrade dell'Agro Ericino2, la cittadina del monte dovette perdere anche l'autonomia comunale, poiché il suo nome non appare mai in alcun pubblico documento dell'epoca. Gli Arabi in seguito mutarono addirittura il nome di Erice in quello di Gebel-el-Hamid (monte di Maometto). Durante il periodo della loro dominazione, le numerose contrade del territorio conobbero senza dubbio floridità e benessere, ma l'antica Erice, ormai abbandonata del tutto, si indeboliva. Il motivo di questo repentino cambiamento delle condizioni di Erice va ricercato nel nuovo mutamento di dominazione. Infatti, dopo le dominazioni dei Vandali, dei Bizantini e degli Arabi, durante le quali la vita di Erice si era spenta al punto da aver cambiato il vecchio e glorioso nome, sotto i Normanni la cittadina rifiorì a nuova vita: la vecchia fortezza assunse il carattere di posto avanzato ed i Normanni la fortificarono potenziandone l'efficacia. Frattanto il nome di Erice mutò una seconda volta e con il mutamento del nome, che richiamava il culto di Venere Ericina, mutò anche l'oggetto della devozione del popolo. Erice normanna venne affidata alla tutela di S. Giuliano e monte S. Giuliano fu il nuovo nome, mantenuto fino al 1934, per essere definitivamente ribattezzata durante il governo di Mussolini con il nome di Erice.
Periodi prosperi furono quelli delle successive dominazioni: sveva, angioina ed aragonese. A quest’ultimo periodo risale l’innalzamento della Chiesa Madre, ordinato da Federico d’Aragona. Oltre che la rinnovata funzione strategica, anche la ripresa economica diede nuova prosperità all’antica cittadina, divenuta capoluogo di un grosso comune agricolo. Sotto gli Svevi Erice venne ad arricchirsi di un nuovo territorio che si estese fino ad includere il feudo di Scopello.
Dall’epoca normanna, per lunghi secoli, Erice fu fortezza regia e vivace centro residenziale di una comunità costiera, gli “habitatores”, colonizzatori dei territori situati alle pendici del monte e per la quasi totalità, impegnati nell’agricoltura e nella pastorizia in ogni località del vasto territorio, preferivano, o si vedevano costretti dalla realtà del tempo a far capo ad Erice, unico sito dove, entro la inespugnabile cerchia di mura, potevano porre al sicuro se stessi e le loro famiglie da ogni pericolo.
Con gli Svevi Erice acquistò ancora maggiore importanza. Nel General Parlamento di Foggia (1241), Federico imperatore e re di Sicilia, confermò agli Ericini il possesso comune delle terre già loro concesse da Guglielmo II d’Altavilla ed aggiunse, anzi, alla loro già notevole estensione altri “casali” disabitati.
Dopo la morte dell’imperatore Federico di Svevia (1250) seguì, anche in Sicilia, un lungo periodo di disordine per il problema della successione, rivendicata da Manfredi re di Sicilia dal 1258.
Erice, seguendo l’esempio di diverse grandi famiglie di feudatari e di altre città del regio demanio, si unì ai ribelli contro Manfredi. Il conte Federico Lancia, zio di Manfredi, guidò personalmente una spedizione contro Erice. Essa fu saccheggiata e devastata e gli Ericini ebbero l’ordine di lasciare per sempre la città. Questa punizione inflitta da Lancia non ebbe, però, seguito.
Pure se indubbiamente drammatiche, le conseguenze dell’episodio incisero sulle condizioni economiche e demografiche della città, non furono gravi al punto di fiaccarne le risorse potenziali e la sopravvivenza.
Il XIV secolo ed alcuni anni del successivo furono periodi floridi e di consolidamento della comunità di cittadini, richiamati al già noto popolamento della città ed alla cura del grande territorio ad essa pertinente dai numerosi privilegi che i monarchi normanni, del tempo di Guglielmo II in poi e, successivamente i re di altre dinastie concessero ed andavano concedendo a quanti, con le loro famiglie, venissero a risiedere nella città di Erice che veniva rinascendo.
Dalla diversa e talvolta remota località di origine dei cittadini, (c’erano Greci, Spagnoli, Veneti, Lombardi, Toscani, Campani, Pugliesi, Calabresi e, naturalmente Siciliani), si venne costituendo una nuova comunità di habitatores.
In senso a tale comunità cominciavano ad emergere, famiglie di più intraprendenti agricoltori e di allevatori che animavano insieme con artigiani e commercianti, la vita economica.
Dalla fine della guerra antiangioina, Erice, florida in quel tempo, ma per la sua economia di diversa matrice, agricola e pastorizia, si viveva atteggiamenti contrastanti riguardante i traffici e la vita sociale.
Gli anni degli ultimi re aragonesi chiusero un periodo di serenità sociale e di tranquillità economica.
Le lotte sanguinose e le discordie interne mosse dai grandi feudatari nel periodo detto “dei Quattro Vicari” (1377-1392) turbarono pure la vita della comunità ericina che subì un duro contraccolpo dalle complesse vicissitudini che per ben quindici anni si andarono svolgendo in Sicilia. Si aggiunsero quelle derivanti da pestilenze e carestie che crearono anch’esse momenti nei quali la vitalità di Erice cominciò a mostrare la sua debolezza congenita.
Nel 1407 Re Alfonso, decretò che Erice non potesse vendersi né disgregarsi dal Regio Demanio, anche se impellenti future necessità lo avessero reso necessario. Con Carlo V Erice dovette contribuire al finanziamento delle spese di guerre. Nell’impresa condotta dall’imperatore contro Tunisi (1535) la città armò, con la somma di 1.000 once, una galera.
Quando nel 1555, nonostante il decreto di Re Alfonso, Carlo V, cercò di vendere Erice per 4000 scudi, motivando tal decisione con la necessità di creare un fondo per la fortificazione delle coste battute dai saraceni, il popolo ericino si autoriscattò per non perdere i vantaggi di “città regia”. Ma, nonostante tutto ciò, la libertà degli ericini corse pericolo ancora nel 1647, quando il Governo spagnolo l’aveva già venduta. Erice si riscattò versando nelle casse dell’erario spagnolo la somma enorme di 14.000 scudi d’oro. In ricompensa si ebbe il titolo di “ Fidelissima”.
Dal XV al XVIII sec. la vita sociale ed economica di Erice non fu diversa da quella delle piccole e medie città siciliane. Nel 1798 la popolazione, prevalentemente concentrata nella città, essendo ancora la pianura esposta ad attacchi e poco sicura, contava 8.172 abitanti. Circolava, sia pure irregolarmente distribuito, un notevole benessere finanziario, che consentì l’edificazione o l’ampliamento di numerose chiese, l’attività di diversi ordini monastici, il consolidamento e lo sviluppo di una numerosa e dinamica classe artigianale, la presenza di clero e professionisti colti e numerosi e, dal punto di vista delle usanze e vita religiosa, la celebrazione fastosa delle numerose festività religiose ricorrenti nel corso dell’anno.
Nel 1816, con la creazione del Regno delle Due Sicilie e la conseguente riforma amministrativa che sanciva la fine dell’antico ordinamento feudale e la costituzione di uno Stato moderno a potere accentrato, Erice perdeva i suoi antichi privilegi e veniva inquadrata nel ruolo di capo circondario di seconda classe.
Nell’ordinamento del nuovo Stato unitario, la città mantenne l’antico ruolo di capoluogo di Comune. Il territorio di essa manteneva quasi integralmente l’estensione dell’epoca dei re normanni di quasi quarantamila ettari e fu uno dei più grandi comuni dell’Isola.


Dalla vita sciolse la cintura, ricamata e variopinta, dov'erano racchiusi tutti gli incanti; vi erano amore, desiderio, dolci parole e la seduzione che rapisce la mente...
Omero (Iliade - canto XIV)

Così Omero dice di Venere e della sua cintura che potrebbe benissimo essere caduta sulla Terra a stringere la vetta di un colle e, qui, aver seminato tutti i suoi incantamenti.
Il colle, a questo punto, non può che essere Monte San Giuliano.
Qui, "Venere, dall'alto della sua vetta, l'Erice, lo vide (Plutone, il dio degli Inferi) che ancora vagava, e stretto a sé il suo alato figliolo disse: Armi mie e mani mie, figlio, strumento della mia potenza, prendi quelle frecce con cui vinci tutti, o Cupido, e scagliane una veloce nel petto del dio a cui è toccato in sorte l'ultimo dei tre regni ..."
(Ovidio, Metamorfosi, libro V - 360- 368),
decretando in un momento la sorte del dio delle tenebre, di Proserpina, della madre Cerere, colei che fece dono del grano agli abitanti dell'isola Trinacria, e di un'altra città, anch'essa a giocar con le nuvole nel cuore più alto dell'isola.

Erice ed Ercole




La leggenda narra che la zona era governata dal semidio Erice, figlio di Bute, uno dei compagni di Ulisse, e della dea Afrodite. Quando Erice venne a sapere che nei suoi territori era giunto in visita il potente Ercole, volle sfidarlo per stabilire chi dei due fosse il più forte.
Se Erice avesse perso, avrebbe consegnato tutti i suoi possedimenti ad Ercole. In caso contrario, Ercole avrebbe consegnato ad Erice le vacche sacre che egli portava con sé.
Ma la fama di Ercole non mentiva ed egli ebbe la meglio su Erice.
Ercole tuttavia continuò il suo viaggio affidando il regno di Erice ai suoi stessi abitanti.
Dedalo e Minosse

Dedalo si rifugiò in Sicilia, ospite del re Sicano Cocalo, dopo essere fuggito da Creta per l’ira di Minosse che voleva punirlo a morte per aver fornito alla consorte Pasifae la famosa vacca pronzea
Minosse però seppe della presenza di Dedalo in Sicilia e andò a chiederne a Cocalo la consegna. Questi finse di aderire alla richiesta ma, in realtà, era solo uno stratagemma per uccidere Minosse in un bagno caldissimo.
Gli stessi cretesi che avevano accompagnato il re, prima di tornare in patria, seppellirono Minosse ed innalzarono sulla sua tomba un tempio dedicato ad Afrodite.
Secondo alcuni, il tempio sarebbe stato appunto quello della dea ericina, sotto il quale si ritroverebbe la sepoltura di Minosse.

Il mito del Cavaliere Giuliano



Dopo la fine dell’impero romano, Erice scompare dai documenti storici. Vi riapparirà soltanto nel XII sec. quando da fonti arabe apprendiamo che esiste una città, chiamata Gebel Hamed, proprio li dove dovrebbe essere Erice.
E’ il 1076 d.C.,quando il conte normanno Ruggero II assedia le popolazioni musulmane sul monte. Alle prime luci del mattino, durante una preghiera di buon auspicio per la vittoria, egli vide in sogno il cavaliere Giuliano in sella ad un cavallo bianco, munito di armi lucenti,vestito del manto rosso da dignitario,con un falcone appollaiato sulla mano sinistra, che spinge alla fuga i musulmani.

Gebel Hamed diviene così terra normanna e, per devozione al Santo, fu ribattezzata nell’anno 1167 “Monte San Giuliano”. Nel 1934 Monte San Giuliano riprese il nome di "Erice".

Venere ericina



Il monte Erice è stato, sin da tempi antichissimi,sede di un culto in onore di una dea che fu simbolo, prima, della fecondità, e poi anche dell'amore e della bellezza. L'aspetto del monte, che sembra più alto di quanto in realtà non lo sia (m. 756, cfr. Strabone, VI 2 6) e che spesso è avvolto sulla cima da una nebbia che lo rende ancora più misterioso (alla stregua del famoso Olimpo, considerato dai Greci la sede dei loro dei), ha favorito senza dubbio la nascita di questo culto, forse per la correlazione che gli antichi supponevano tra l'acqua e la fecondità (cfr. V Adragna., Erice, Trapani, 1986).



Leggenda di S. Nicola



Sul personaggio di San Nicola esiste tutta una serie di leggende che furono alla base della sua venerazione.
Ereditò una grande fortuna dai genitori e la distribuì ai poveri del suo paese,durante la sua vita inoltre si prese sempre carico di orfani, di vedove e di gente perseguitata.
La sua fama di generosità deriva dalla leggenda che lo vuole benefattore di tre ragazze, le quali rischiavano di finire come prostitute non essendo il loro padre in grado di pagare i debiti da cui era gravato.
Quando San Nicola lo venne a sapere, per tre notti consecutive gettò nella finestra della stanza da letto delle figlie borsellini di monete salvandole da un destino infausto. Il padre pagò i debiti e gli rimasero i soldi anche per le doti delle tre figlie. Per questo motivo le ragazze nubili che hanno il desiderio di sposarsi pregano San Nicola.
Durante la sua permanenza a Bari, secondo la leggenda, salvò la vita ad alcuni marinai, per cui con l’attributo dell’ancora viene venerato come patrono dei marinai e dei commercianti.
San Nicola protesse inoltre i pescatori e nell’Europa centrale i traghettatori, si curò dei ponti e protesse dalle alluvioni.
Il giorno della festa di San Nicola – il 6 dicembre – da allora fu associato alla ricchezza e alla prosperità.



Erice oggi...



Nel 1934, anno dell’ultimo censimento dell’anteguerra, esso contava globalmente 35.000 abitanti, di cui soltanto 3.000 nel capoluogo. La maggior parte della popolazione risiedeva stabilmente ormai nelle numerose case sparse e sobborghi facenti capo a quelle che erano le principali frazioni: San Vito Lo Capo, Custonaci, Buseto Palizzolo e Valderice.
L’antico ruolo di capoluogo amministrativo e residenziale di Erice si venne dunque attenuando con la concessione delle sollecitate Autonomie da parte dei primi Governi della Regione Siciliana.
Nel dopoguerra, con le prime elezioni, fu espressa a maggioranza un amministrazione socialista, capeggiata dal sindaco Sebastiano Bonfiglio, il quale si mosse fra le grosse difficoltà imposte dalla rovente atmosfera del tempo. Di Erice s’intravide soltanto la vocazione al suo autentico ruolo di moderno centro di soggiorno e turismo, che ebbe modesto svolgimento e non tale, comunque, da costituire fondamento alternativo di vita alla città; del territorio, fatta eccezione per poche realizzazioni di non fondamentale importanza, gli organi responsabili non recepirono la complessità e la urgente concretezza dei problemi.
Il secondo dopoguerra ha posto ancora tutti questi problemi non risolti. Esaurita la sua antica funzione storica che la rendeva unico centro aggregante di popolazione del suo grande territorio, nel quale pulsa ora la vita e l’attività di quatto nuovi Comuni autonomi, l’antica Erice svolge oggi il suo moderno e prestigioso ruolo di centro residenziale e turistico che ha raggiunto ormai larga notorietà internazionale anche e specialmente per la dinamica presenza, di alta qualificazione culturale e scientifica , del Centro Ettore Majorana.
Da questa nuova e più ampia funzione, l’antica Città trae ragion d’essere.



Processione dei Misteri di Erice

Il Venerdì Santo si svolge ad Erice la Processione dei Misteri. Per molti aspetti assomiglia a quella che ha luogo, nella stessa giornata, a Trapani ma ha dimensioni più ridotte. Su e giù per le strette stradine della città sfilano i quattro gruppi statuari che raffigurano la Passione e la Resurrezione di Cristo. Li accompagna la banda musicale che esprime in note il tormento di Cristo.
I gruppi statuari, risalenti al 1600, sono portati a spalla dai rappresentanti delle Maestranze, quelle che un tempo rappresentavano le varie categorie sociali della città. La processione parte, nel primo pomeriggio, dalla Chiesa di Sant’Orsola e lì ritorna dopo aver percorso le strade principali di Erice.
Quando: Venerdì prima di Pasqua
Dove: per le vie di Erice



La Madonna di Custonaci e la sua processione

Il culto della Madonna di Custonaci è stato, fin dalla fine del XVI secolo, uno dei più popolari e sentiti in tutto l’agro ericino. Si racconta che una nave recante un dipinto della Madonna avesse miracolosamente trovato scampo da una tempesta presso Cala Burguto, a Cornino, e che questo avrebbe spinto i marinai ad innalzare qui un luogo di culto in onore di quella che da allora fu chiamata la Madonna di Custonaci e che oggi è sia la patrona di Custonaci che di Erice e Valderice.
I festeggiamenti in suo onore iniziano, ogni anno, nella settimana che precede l'ultimo mercoledì di agosto. Il lunedì, dopo il tramonto, viene riproposto lo "sbarco della Madonna": l'arrivo dal mare, presso la baia di Cala Buguto, della tavola cinquecentesca con la sacra raffigurazione. Alla barca che trasporta il dipinto si affiancano numerose altre barche di pescatori, in modo da creare una sorta di processione in mare. Una volta avvenuto lo sbarco, i giochi pirotecnici segnano l'inizio della processione a terra: la Sacra Immagine, posta su un carro, viene trasportata a spalla sino al santuario a Lei dedicato. I festeggiamenti si concludono infine il mercoledì con la processione della Madonna per le vie della città.
Quando: fine di Agosto
Dove: Custonaci

ARTIGIANATO

L’artigianato presente ancora a Erice, propone all’attenzione dei visitatori una serie d’immagini vive che richiamano il passato in modo rilevante.

Come simbolo dell’attività artigianale si può ammirare l’antichissimo vaso biglobato detto (saliera) uno degli oggetti più rari esposto al museo Cordici
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Fra le classi dell’artigianato primeggiarono quella dei Fabbri ferrai, falegnami e calzolai. Fino i primi decenni di questo secolo l’artigianato ericino era molto richiesto anche al di fuori della città, dando maggior vita alle botteghe artigiane; esistono anche strade o piazze che segnano la presenza degli artigiani: Per i Fabbri la strada di Santa Teresa e Piazza San Giuliano, per i maestri Calzolai la strada di San Francesco e la strada Grande, dove tuttora possiamo trovare le botteghe degli artigiani.

Tipica porta-finestra delle botteghe artigiane

L’attività del tempo libero delle donne Ericine era la produzione dei tappeti e dei dolci che poi si trasformò in una qualificata attività artigianale.


Entrando nei particolari di ogni singola categoria di artigiani abbiamo:

La lavorazione del ferro

I mastri ferrai furono presenti fin dalla rinascita della città. Nei secoli del XVI e XVII, erano una delle corporazioni artigiane più influenti, dove il console era di solito il più anziano della famiglia Cetino. Rintracciare manufatti di ferro battuto non è facile perché si trovano in palazzi, chiese e monumenti come: Il cancello che chiude la cappella dell’altare maggiore della chiesa di San Giovanni Battista, si tratta di un’opera di rara perfezione tecnica perché il maestro Carlo Cetino (XIX- 1800) riesce a rendere morbido il duro ferro grezzo trasformando la materia in linee eleganti.

I mobili

Il legno fu la materia prima che gli uomini del monte apprezzarono particolarmente, i maestri d’ascia di Erice furono notissimi e ricercati per la loro perfezione e la loro serietà, il loro lavoro è particolarmente rappresentato nei loro mobili d’epoca realizzati con la più accurata e sofisticata tecnica dove l’asse o il blocco di legno pregiato sono ridotti dopo operazioni minuziose, pazienti e attente.
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Ceramica

La tradizione ceramista a Erice si era perduta in circostanze oscure tra il XIV e il XV secolo ma per fortuna fu brillantemente ripresa. I prodotti seguono le esigenze del nostro tempo ma possiamo trovare anche modelli del passato ripresi e interpretati con cura; la gamma è vasta si va dal modesto oggettino al materiale progettato appositamente per decorazioni di ambienti ecc… presentando grande stile e gusto, nelle superfici degli elaborati, spesso sembra esplodere il colore che è stato applicato sulla forma grezza, il processo produttivo si conclude nella fase di cottura al forno.
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Tappeti

Il tappeto ericino nasce quasi dal nulla, da poche e umili cose. Un vecchio telaio di legno, sorretto da quattro robuste assi cilindriche (come tutti gli antichi telai del mediterraneo), qualche matassa di cotone, un mucchietto di ritagli e stoffe multicolore. L’artigiano con il suo buon gusto e senso del colore, trasforma queste piccole cose in un prodotto pregiato la cui richiesta, anche dei paesi più lontani è sempre sostenuta. La tessitura del tappeto era un tempo, l’attività preferita della massaia Ericina nelle ore libere. Non bisognava sciupare nulla né il tempo e neanche i ritagli di stoffa. Da quando s’incominciò a scoprire Erice per le sue bellezze ambientali, artistiche e monumentali, quella nascosta e antica attività della tessitura prendono vita trasformandosi in una vera e propria attività artigianale che va ancora sviluppandosi. Il tappeto è formato da intrecci di stoffa coloratissimi su uno sfondo chiaro o scuro dalla tonalità attentamente scelta, i colori disegnano delle forme arabesche e sinuose con successioni geometriche. Spesso il disegno per il sapiente accostamento dei colori sembra avere una terza dimensione e in quest’ultimo caso il tappeto si può anche esporre come arazzo nelle pareti di una casa.


GASTRONOMIA ERICINA

La cucina ericina come quella trapanese venne influenzata da molte popolazioni che passarono in queste zone, soprattutto, furono di grande importanza i grandi pranzi rituali che si celebravano in onore delle dea Ericina dove partecipavano non solo sacerdotesse ma anche molti pellegrini devoti, i quali venivano sul monte per sacrificare cibi e bevande. Non bisogna escludere l’ipotesi che nel primo millennio a.C. le prime immigrazioni d’oriente abbiano influito, sull’alimentazione, nell’accoglimento di un gusto che al di là del mare è più evoluto, grazie alla disponibilità e l’uso di un ricco campionato d’ingredienti. Anche la civiltà greca porto nel territorio degli elimi cultura, cucina, e gusto greco.
Nell’antichità famosissimi erano carni, latticini, formaggi e prodotti caseari che venivano adoperati in onore della Dea Venere. E ancora adesso in occasione delle festività i tavoli sono imbanditi di Cassatelle “Cassateddi”, ravioli di ricotta e tumma, di origine assai remota sono pure le Milidde biscotto insaporito con olio, sesamo e comino.



I GRECI

Grazie ai greci gli ingredienti che servirono a insaporire in maniera sempre più sapiente i frutti della terra furono l’aglio (agghia), le olive (alive), l’amido (àmitu), il cappero (chiappara), il comino (cimino) e l’origano (rianu) e furono luogo di scambio di esperienze gastronomiche attraverso i mercanti ed i marinai che vi approdavano o vi rimanevano.


I ROMANI
Poco sappiamo dell’influsso romano nella cucina siciliana ma ansi si trattò di un influsso inverso cioè della cucina siciliana su quella romana, pesante e poco elaborato. Infatti basti considerare che, personaggi come Cicerone, Petronio e altri celebravano le siculae dapes “banchetti siculi”dove preparavano il garum (definito “follia gastronomica”) e il maccum zuppa di fave schiacciate, fu così che i romani impararono a gustare pietanze raffinate da loro sconosciute.


I BIZANTINI

Con Bisanzio scompaiono le fonti storiche delle consuetudini e degli usi gastronomici, ci sono però delle fonti anche se poche che ci ricordano che quella fu l’ epoca dove furono introdotti formaggi piccanti conditi con spezie, bottarghe di tonno e si continuò la lavorazione del formaggio, della ricotta e la conservazione del pesce sotto sale o sotto olio e del tonno attività che troviamo presenti nei giorni nostri.



GLI ARABI

Questo popolo venuto dalla vicina Africa portò grandi novità nella cucina ericina, importarono colture di agrumi, gelso, gelsomino e un piatto famosissimo chiamato “couscus” i granuletti di semola impastati (incocciati), nella “mafaradda” (lo speciale vaso di terracotta smaltato all’interno e poi cotti a bagno maria, con il vapore della speciale pignatta con fondo bucherellato sovrapposta ad un'altra di tipo comune. Sono qui conditi con brodo di pesce di diversa specie e non con il brodo di montone o di capretto di tradizione Araba condito con peperoni rossi e aromi.


Anche nei dolci si può notare un influenza araba … Come la cassata (quasat = Scodella rotonda) a base di ricotta, mandorla, miele, farina; la cubbaita a base di semi di sesamo, miele e mandorle; E poi il sorbetto la “scunsunera” che si prepara ancora a Trapani con ghiaccio tritato e fragranza di gelsomino
DAI NORMANNI AGLI SPAGNOLI

I Normanni portano in Sicilia un nuovo ingrediente: Il merluzzo secco e quello aperto e salato (baccalà) molto richiesto nel periodo invernale.


E’ importante segnalare che gli Angioini e gli Aragonesi e poi per 300 anni gli spagnoli non lasciarono tracce gastronomiche; perché la tradizione culinaria con questi nuovi dominatori si era già solidamente consolidata e quindi con loro rimase sostanzialmente inalterata ma nei fastosi castelli o monasteri si iniziò la preparazione di squisiti liquori dalle ricette misteriose e nei conventi le suore cominciarono ad elaborare l’arte dolciaria la cui tradizione è ancora presente.
(vedere pag. _ _ “ Maria Grammatico e le ricette segrete” )
Col passare del tempo Erice acquisisce nuovi ingredienti come il pomodoro giunto insieme con il tacchino, dalle Americhe e poi il cioccolato; e dalle Indie, le melanzane. Ingredienti nuovi che furono elaborati con fantasia e gusto dalla cucina siciliana; provincia per provincia che conferisce a ogni area la propria individualità gastronomica.

GASTRONOMIA ATTUALE

I dolci prodotti di prima qualità da utilizzare nelle grandi occasioni sono dolci a base di mandorla, conserva di cedro, ricotta che, al momento giusto, troneggiano festosamente al centro della tavola imbandita.

Un posto d’onore spetta alla Cassata di Erice a base di conserva di cedro frammista a cubetti di frutta candita e cioccolata fondente a pezzettini, ricotta, pan di Spagna e rivestita infine dalla pasta reale “marturana”.

Inoltre possiamo trovare la Salsa Verde a base di aglio e basilico con la quale si condiscono gli gnocchi di casa ottenuti con metà farina di grano duro e metà patate lesse e plasmati a forma di piccole colombe, con la variante per qualche buon gustaio che aggiunge nella composizione della pasta punte di asparagi selvatici lessati e setacciati.



Un altro piatto di grande successo sono i ravioli di ricotta che si lessano nel brodo di carne o di pesce che in forma del tutto originale vengono dolcificate, fritte e servite calde ovvero le cassatelle.



Dopo di che c’è il piatto principe il famosissimo cuscus. Per quanto riguarda quest’ ultimo piatto la “variante” Ericina include l’uso delle mandorle fresche, sbollentate tritate e filtrate attraverso il brodo di pesce caldo.



Ricetta Genovesi Ericine

Ingredienti per la pasta:
0,900 kg farina 00
-1 uovo intero più 4 albumi
-220g di burro
-300g di zucchero
-15g di ammoniaca alimentare
-poco latte tiepido
-2 bustine di vanillina
-scorza grattugiata di limone
1litro di crema pasticcera aromatizzata al limone

passo1
Sciogliete l'ammoniaca nel latte tiepido assieme alla vanillina e alle scorze di limone
passo2
Disponete la farina a fontana e ne suo centro mettete le uova, il burro ammorbidito, lo zucchero ed il latte con l'ammoniaca alimentare
Impastate bene il tutto e fate riposare 30 minuti in frigorifero (in questi 30 minuti preparate la crema pasticcera)
passo3
poi riprendete l'impasto e con la macchina sfogliatrice stendete la pasta a 2mm.
passo4
Ritagliare dei tondini anche con un bicchiere e riempirli di crema pasticcera al limone,richiuderli con un altro tondino ed infornarli a 160° per 10 minuti-
A cottura ultimata servire con sopra lo zucchero al velo.

I “mustazzoli”, dolci ricercati ed elaborati a base di mandorla,
Ricetta

Ingredienti
per 6 persone:
100 gr di mandorle
1 kg. di farina
400 gr di zucchero
10 gr di cannella
1 chiodo di garofano
1 cucchiaio di lievito
Burro e farina per la teglia.

Esecuzione
Versate la farina su una base, disponetela a fontana e al centro ponetevi le mandorle tostate con la buccia e tritate finemente. Unite la cannella, il chiodo di garofano tritato e lo zucchero sciolto in un bicchiere d'acqua insieme al lievito. Impastate fino ad ottenere un composto liscio ed elastico, aiutandovi con l'aggiunta di un bicchiere d'acqua. Formate con la pasta dei biscotti di quattro centimetri di lunghezza e larghi due. Imburrate ed infarinate una teglia, allineatevi i biscotti e passateli in forno caldo per 10/15 minuti.

Maria Grammatico e le ricette segrete

Maria Grammatico, nata nel 1940 ultima di sette figli, chiusa in un convento di clausura San Carlo di Erice a undici anni. E’ l’artefice di molte ricette segrete ericine tradizionali . La sua storia è singolare, a tratti molto triste, ma l’epilogo è dolce come le sue “creature” e vale la pena accennarne.

Nella Sicilia del dopoguerra, il velo e la tonaca, erano una delle poche soluzioni per scappare alla fame. Ma il pane, quando manca la libertà, non sazia.
Quindici anni rinchiusa in quattro mura, contro la sua volontà, ma a quei tempi ben poco contava ciò che pensava una ragazzina di undici anni. Maria non riesce a cancellare però, il rimpianto per l’adolescenza e per la gioventù mai vissuta. Le suore le impedivano di accendere la radio, considerato secondo loro, una scatola contenente il male che parlava. Le mentivano su determinati argomenti,non facendole conoscere la realtà dei fatti, non potè vedere sua madre per molto tempo a causa della sua gravidanza perché poteva indurre le fanciulle a coltivare pensieri peccaminosi. L’ipocrisia di quel convento le ha fatto credere che le mestruazioni fossero una malattia dalla quale sarebbe guarita pregando la madonna. L’unico contatto che Maria aveva con il resto del mondo, pur essendo una terribile esperienza, erano i funerali, poiché le ragazze del collegio venivano “affittate” dalle ricche famiglie e vestite di nero e dovevano piangere per riconoscenza.
Lavorando all’interno del convento, Maria coltiva una passione per la pasticceria, le suore, gelosissime delle loro ricette, preparano gli ingredienti di notte, al riparo dagli occhi delle novizie, ma Maria sbircia tra le fenditure del pavimento del corridoio che danno sulla cucina, e annota in un quaderno tutto quello che fanno; per pesare gli ingredienti usano le pietre che corrispondevano a una, due, cinque, dieci, once.

Il giorno seguente, quando loro non sono nella stanza, verifica il prezzo scritto sulle pietre. E così dopo tante notti insonni, e dopo tanta fatica Maria ha le ricette che le suore tenevano in segreto.
A 26 anni, a causa di una convalescenza, lascia il convento e non ritorna più. Ma per lei è difficile affrontare il mondo oltre le mura del convento, deve imparare tutto da capo, come il saper relazionarsi con gli altri, e trovare un impiego per mantenersi economicamente. Così, dopo un periodo di disorientamento, tira fuori il quaderno con le ricette, e con i primi risparmi compra le prime mandorle, la farina e lo zucchero. Dei muratori le regalano un forno a legna, paga a rate un bancone al falegname, e un artigiano le costruisce il piano di marmo.
Al principio della sua attività, Maria non era
considerata una donna per bene, poiché a quei tempi non si aveva un buon parere di una donna che faceva un mestiere da uomo, o meglio di una donna che lavorava. Ma Maria ebbe un ottimo risultato; dolci come le “sfinge”, le pecorelle, le colombe e le paste di mandorla, ripiene di conserva di cedro, in Sicilia, si consumano molto soprattutto nei periodi festivi.



Erice (Eryx) (Èrici o semplicemente u' munte in siciliano) era anche il nome di un personaggio mitologico ucciso da Ercole.

Il comune conta 31.027 abitanti e ha una superficie di 4.723 ettari per una densità abitativa di 657 abitanti per chilometro quadrato. Cuore del comune è il capoluogo che sorge nell'omonimo "monte". Diverse le frazioni che completano il territorio, alle falde della montagna madre (Casa Santa, Tangi, Ballata, Napola, Pizzolungo ecc...) Artigianato caratteristico: ceramica Dolce tipico: Genovese

Il capoluogo è collegato alla valle da una funivia.

Secondo Tucidide, fu fondata dagli esuli troiani, che fuggendo nel Mar Mediterraneo avrebebro trovato il posto ideale per insediarvisi; sempre secondo la leggenda, i Troiani avrebbero poi dato vita al popolo degli Elimi.

In antico, insieme a Segesta, che parrebbe di fondazione coeva, era la città più importante degli Elimi, in particolare era il centro in cui si celebravano i riti religiosi.

Durante la prima guerra punica, il generale cartaginese Amilcare ne dispose la fortificazione, e di qui difese Lilibeo. In seguito trasferì parte degli ericini per la fondazione di Drepanon, l'odierna Trapani.

I Romani vi veneravano la "Venere Ericina", la prima dea della mitologia romana a somiglianza della greca Afrodite.

Dal 1963 è sede del Centro di cultura scientifica Ettore Majorana, dedicato agli studi scientifici, istituito per iniziativa del professor Antonino Zichichi.

Nel 1990, a seguito della prima edizione dell'"Atelier Internazionale di Gastronomia Molecolare", di cui da allora regolarmente si tengono convegni annuali, si ebbe il formale riconoscimento della disciplina della gastronomia molecolare.
 
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